Il tema della traduzione è un tema assai caro ai linguisti e a chi studia la lingua, come me. Come scegliere una parola nel passaggio ad un’altra lingua? Come comportarsi davanti a parole sconosciute? Come riuscire a raccontare una parola che nasce in una cultura differente? Nel 1777 bison (‘bisonte’) diede talmente filo da torcere a William Robertson alla prese con la traduzione dell’History of America che alla fine lo lasciò bisonBeef steak invece divenne presto bistecca!

La traduzione può poi essere inconsapevole: divertentissimi i casi di storpiatura dal latino (in particolare delle preghiere e della Messa) che percorrono tutta la storia linguistica dialettale.

Ad aprile ne parlai con gli iscritti alla newsletter: tanti i libri che in quel mese avevano destato positive o negative reazioni proprio a causa di traduzioni più o meno riuscite. Ieri poi sono andata ad un incontro tenuto da Bruno Tognolini dedicato al suo lavoro: è partito da Ciao cielo, ma ci ha spalancato una finestra sull'universo di parole e giochi che questo poeta e moderno canterino muove intorno a sé. Ho così scoperto che Janna Carioli conosceva dei peccatori che prendevano l’autobus a certe ore (Ora pro nobis peccatoribus = peccatori in bus) e Giusi Quarenghi si interrogò audacemente sulla natura ortografica della virgola uretana (Virgo lauretana = virgola uretana), Bianca Pitzorno infine invocò con calore che Gesù le regalasse chiottàmi (lei desiderava/immaginava peluches) a volontà (Dolce cuor del mio Gesù fa’ ch’io t’ami sempre più = Fa chiottami).

Mi sembra proprio l’occasione giusta, quindi, per parlare di Lost in translation, un libro di Ella Frances Sanders che raccoglie 51 parole intraducibili e le regala ai suoi lettori offrendo loro un mondo che di volta in volta si condensa magicamente in pochi suoni. È impressionante osservare quante parole servano per riferirsi ad ognuno di questi referenti. Tognolini parlava dell’inesauribile fertilità con cui i bambini creano le parole e di come gli adulti ad un certo punto debbano aiutarli a finalizzare la loro comunicazione, proprio per permettere loro di essere capiti. Molte delle parole che incontriamo in questo libro hanno questo dono di sintesi: condensano in un’unica parola un concetto per esprimere il quale, in italiano, occorrono molte, moltissime altre parole, rimanendo probabilmente comunque solo vicini al centro ricchissimo del suo significato. In nguni bantu "ubuntu" «essenzialmente significa: io posso essere io solo attraverso voi e con voi. Si può tradurre in modo (molto) grossolano con senso di umanità». Queste parole molto ci dicono anche della cultura di provenienza: le parole nascono perché se ne ha la necessità. I russi sanno nominare la sensazione del disinnamorarsi, i tedeschi la pancetta che viene per la fame nervosa mentre gli scozzesi hanno una parola per il pizzicorio che viene al labbro prima di bere whiskey.

Di alcune delle parole raccontate nel libro non potrete più fare a meno. Vorrete poterle usare come è successo a me. Vi accorgerete di aver fatto l’esperienza raccontata e avrete un modo per nominarla.

  • Mångata dallo svedese è ‘la scia luminosa della luna che si riflette sull’acqua’;
  • Gezellig dall’olandese: ‘molto più che accogliente e piacevole: descrive il senso di intimità, calda e rigenerante, non necessariamente fisica, che si prova stando con persone care’;
  • Meraki dal greco: ‘fare qualcosa con tutto te stesso: con passione, creatività e amore’;
  • Komorebi dal giapponese: ‘la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi’;
  • Gurfa dall’arabo: ‘l’acqua che puoi tenere in una mano’;
  • Ákihi dall’hawaiano: ‘chi ascolta le indicazioni e quando si allontana prontamente si dimentica’;
  • Cafuné dal brasiliano: ‘l’atto di passare teneramente le dita fra i capelli della persona amata’.

Di altre parole, invece, non comprenderete l’utilità e probabilmente non saprete come usarle:

  • Pisan zapra dal malese: ‘il tempo necessario per mangiare una banana’;
  • Poronkusema dal finlandese: ‘la distanza che una renna può comodamente percorrere prima di fare una pausa’.

Il libro è strutturato a coppie di pagine. Sulla sinistra, su sfondi monocromi di colori brillanti, si trovano la lingua di provenienza, la categoria grammaticale e una brillante introduzione/commento che spiega e introduce la parola. Sulla destra, in tavola bianca, la parola, la sua traduzione e le illustrazioni esplicative. Lo stile è disimpegnato, fluido, senza pretese: pare di sfogliare un blocco di appunti presi in viaggio. Impressioni linguistiche che si fissano indelebilmente sulla carta.

Un libro insolito, anzi unico, che merita un posto d’onore sugli scaffali di chiunque ami le parole. Aggiungo due piccole annotazioni dietro le quinte di cui mi ha raccontato la brava traduttrice (Ilaria Piperno). Nella versione italiana non è stata inserita l'unica parola italiana considerata intraducibile dall’autrice, perché la redazione la ha invece considerata traducibile: commuovere. Anche culaccino, altra parola italiana presente nei primi appunti dell'autrice, non ha raggiunto l'edizione finale italiana: in questo caso l'intraducibilità forse è semplicemente legata al disuso in cui la parola è caduta.

Lost in translation
Ella Frances Sanders - Ilaria Piperno (traduttrice)

120 pagine
Anno: 2015

Prezzo: 15,00 €
ISBN: 9788871687353

Marcos y Marcos editore

[shareaholic app="share_buttons" id="15118398"]
Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *