Il giorno della Memoria non solo mette al centro il drammatico evento della Shoah, ma ci invita anche a riflettere sul concetto stesso di memoria.

La memoria è un tornare indietro, ma è anche un richiamare al presente e ha, dunque, una fortissima affinità con il custodire.

Il primo romanzo che vorrei proporvi e che molto mi ha donato su questo tema è Il bambino di Noè di Eric-Emmanuel Schmitt.

Il romanzo si ispira ad una storia vera, sullo sfondo di una Bruxelles immersa nel caos dell’invasione nazista. In primo piano un bambino ebreo e un sacerdote cattolico, oggi ricordato tra i Giusti delle Nazioni, i cui destini si incrociano e vengono raccontati anche a partire dall’episodio biblico del patriarca Noè.

Noè, cogliendo i segni di una tragedia imminente che avrebbe investito il mondo intero, si adopera per custodire e per preservare: cioè si preoccupa di raccogliere e proteggere ciò che rischiava di andare perduto per sempre. Nello specifico della storia, gli animali che accoglie sull’arca.

«cominciò una collezione. Con l’aiuto dei suoi figli e delle sue figlie si dette da fare per trovare un maschio e una femmina di ogni specie vivente […] Poi le piogge cessarono. Allora capì che aveva vinto la sua folle scommessa: salvare tutte le creature di Dio».

Quella che viene raccontata con capacità e con una scrittura avvincente, attraverso descrizioni vivide e un tono ironico e focalizzato in prima persona è la storia di Joseph, un bambino belga, figlio di un sarto ebreo, che viene affidato dai suoi genitori a una famiglia cattolica che a sua volta lo invierà sotto la protezione di padre Pons, un sacerdote che accoglie con documenti falsi i bambini ebrei nel suo convitto-orfanotrofio, preservandoli così dagli orrori delle deportazioni che imperversavano per tutta Europa.

La vita di quel periodo poteva sembrare un’avventura o un incubo, eppure quello che emerge vividamente in questo romanzo è una rete di persone che si adopera con coraggio e dedizione a salvare la vita a molte persone, semplicemente amiche, come testimonia limpidamente la farmacista “mangiapreti” che aiuta padre Pons con i documenti falsi:

«“Non sono buona, sono giusta. Non mi piacciono i preti, non mi piacciono gli ebrei, non mi piacciono i tedeschi, ma non tollero chi se la prende con i bambini”»

Il racconto è lieve, da un certo punto di vista preservato da molti degli orrori a cui Joseph non assiste proprio per l’occasione di salvezza che padre Pons gli diede con Villa Gialla, entro i cui confini trascorse più di due anni.

Il romanzo scorre, raccontandoci della vita a Villa Gialla tra studi, messe, lavori, fame, feste, giochi… ma anche delle sapienti piccole attenzioni con cui il sacerdote, e i seminaristi che lo aiutavano, riuscivano a far sì che i piccoli ospiti ebrei non venissero riconosciuti, neanche dagli altri bambini non ebrei. Epiche le botte che i giovani seminaristi si danno per permettere la fuga di padre Pons e di alcuni ragazzi ebrei che erano stati identificati.

Le amicizie narrate tra quelle mura e i legami tra quei ragazzi nascono in forza di un rapporto fondamentale e fondante, quello con padre Pons, che si traduce in dialoghi intensi, amorevoli e molto provocanti (“Si possono amare i propri persecutori?”, si chiederà spesso padre Pons), che spesso si svolgono nel sotterraneo della chiesetta del convitto, dove il sacerdote si preoccupa, come Noè, di studiare la Torah e di preservare anche tutti gli oggetti e i libri sacri per l’ebraismo che riusciva a salvare dalla distruzione nazista:

«“Se il diluvio continua, se nell’universo non resta più un solo ebreo che parli l’ebraico, io te lo potrò insegnare. E tu lo potrai trasmettere”»

Nasce da questo rapporto un romanzo intenso che regala molte domande – sulla morte, sull’amore, sulla paternità – e che si conclude in modo speranzoso, ma anche sottilmente provocatorio con un balzo in avanti che conduce la narrazione fin nel nuovo stato di Israele.

È il racconto di una vita che, nel confronto con ciò accadeva al di fuori di quelle mura protette, mostra, in modo ancora più evidente, l’insensatezza della violenza e ci ricorda come il ricordo e la memoria facciano parte dell’identità di ciascuno: senza memoria ci si scorda chi si è.

«Certo, niente è paragonabile alla Shoah e nessun male si può mettere a confronto con un altro male, ma ogni volta che un popolo della Terra si trovava minacciato dalla follia di altri uomini, padre Pons si dedicava a mettere in salvo gli oggetti che minacciavano l’anima minacciata»

Altro tono e altro luogo per un romanzo che, per certi versi, non sembra centrare molto con il racconto della Shoah. Parlo di Rosa Riedl, fantasma custode di Christine Nöstlinger, celeberrima autrice austriaca: un romanzo sottilmente provocatorio e ironicamente lucidissimo nel raccontare cosa significhi ricordare, cosa significhi custodire e che cosa significhi fare memoria.

Al centro di questo romanzo c’è infatti un fantasma di nome Rosa, dall’aspetto e dalle sembianze di una vecchia signora (particolare che, di per sé, è molto originale!), che si trova a fare compagnia a Nasti, una bambina di 11 anni paurosa ma molto tenace e in fondo meno timorosa di quanto lei stessa pensi di sé.

Nasti vorrebbe tanto avere un angelo custode che la difenda dalle sue paure, un angelo, come quello della sua amica Tina, che, in quanto cattolica ha “diritto” ad averlo. È qui che entra in scena Rosa che, aldilà di una differenza d’anni e di esperienze abissali, giunge a farle compagnia. Le paure e le insicurezze che Nasti supera insieme a Rosa, che non fa molto di più che starle accanto, sembrano davvero piccole cose, come la paura di rimanere a casa da sola, la paura del buio e quella dei cani. E, da fifona che era, Nasti diventa quasi una sovversiva: è davvero stupendo il suo cambiamento a scuola! Di sicuro guadagna abbastanza coraggio e sicurezza di sé per presentare alla sua famiglia il suo personalissimo fantasma, senza temere di essere presa per pazza. Il romanzo è tutto qua, una storia di crescita e consapevolezza, ambientata nel 1978, che vede Nasti alle prese con le sfide degli adolescenti: le amicizie, la scuola, i bulli, le amiche-nemiche, i film paurosi alla televisione, i genitori («era davvero una cattiveria da parte delle mamme pretendere costantemente dai figli che le informassero su ogni minima cosa»), la scoperta del mondo... Il tutto reso indimenticabile e rocambolesco dalla scrittura unica dell’autrice austriaca.

Ma cosa c’entra tutto questo con la Shoah e la memoria?

Il legame è sottolineato dall’autrice austriaca fin dall’apertura del romanzo il cui primo capitolo si intitola: «Primo capitolo in cui si spiega perché è meglio che la storia non cominci nel 1944». Questo capitolo,  che serve a introdurre lo spazio e il contesto narrativo in cui si muoveranno i personaggi, ci racconta già di una Rosa fantasma che, sul fine della guerra, utilizzava la sua capacità di interagire nel mondo reale per fare scomparire prosciutti, conserve e altri beni di primo sostentamento dalle case dei ricchi austriaci per portarle negli appartamenti di famiglie che rischiavano di morire di fame.

Ma questo non ci spiega niente del valore del custodire.

Per capirlo dobbiamo arrivare al capitolo sette, dove Rosa racconterà a Nasti come è diventata un fantasma.

«Nella nostra zona c’erano pochi ebrei. Io personalmente conoscevo soltanto il signor Fischl. Era orologiaio e aveva la sua bottega giù all’angolo. Ogni giovedì facevo le pulizie da lui. Era gentile. Non si lamentava mai di niente. “Signora Riedl, cosa farei senza di lei?” diceva sempre. […] Era così ingenuo che non riusciva neanche a immaginare quali cattiverie potessero accadere il mondo. […] E poi un giorno, mentre tornavo da una certa Beiere, alla quale facevo i servizi, arrivo vicino alla bottega di Fischl – purtroppo dall’altro lato della strada – e vedo due uomini della squadra d’assalto con le camice brune e le fasce con la svastica sul braccio che portano fuori dalla sua bottega il signor Fischl e lo trascinano fino all’angolo. […] Volevo dire a quelli che non erano dei nazisti che dovevamo fare qualcosa, che non si poteva permettere che accadesse una cosa del genere. E così ho attraversato senza guardare. Il tram non è riuscito purtroppo a frenare in tempo. “Signor Fischl” ho chiamato. “Signor Fischl, sto arrivando!” Ma “Lo volete aiutare una buona volta!” non sono più riuscita a urlarlo»

Questo episodio, che sembra piccolo e quasi ininfluente nel grande fluire del tempo e che, in effetti, fu ininfluente sul destino del signor Fischl, determina, invece, un cambiamento indelebile, innanzitutto in Rosa. Da quel momento infatti diventa un “fantasma custode”, non un angelo custode – gli angeli non hanno ricordi di vita umana perché non lo sono mai stati! –, perché proprio grazie alla vita umana acquisisce una ragione per rimanere.

Da quell’attimo Rosa dedica la sua vita, in questa terra di mezzo, a custodire e rinnovare questo moto umanissimo di difesa del prossimo, facendosi compagna (e custode!) nelle piccole e grandi paure di chi le si accosta, per vincerle insieme.

In questo modo anche le vicende quotidiane di una ragazzina possono legarsi alla Shoah, perché la memoria è azione determinante nel presente.

Non a caso, in quarta di copertina viene riportata questa frase di Christine Nöstlinger:

«Chi scrive per bambini ha la possibilità di far loro scoprire come sia possibile battersi per un mondo più giusto, più umano, più bello»

Un romanzo gentile e bello sulla forza del farsi compagnia e del bene che cambia tutto, anche se a volte sembra non cambi niente.

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Il bambino di Noè Eric-Emmanuel Schmitt - Alberto Bracci Testasecca (traduttore) 128 pagine Anno 2004 Prezzo 13,00€ ISBN 978817004421 Editore Rizzoli
Rosa Riedl, fantasma custode Christine Nöstlinger - Anna Patrucco Becchi (traduttrice) 208 pagine Anno 2020 Prezzo 16,00€ ISBN 9788898519842 Editore La nuova frontiera
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