Quando io e mio marito abbiamo deciso di entrare nel viaggio dell’adozione siamo stati travolti da una realtà piena di sfide, un percorso provante, sfidante che non ci ha risparmiato nessun esempio negativo, nessun dramma.
Ci sono due consapevolezze che custodisco e che mi accompagnano nella mia vita di madre (anche) adottiva: le ferite sono profonde, ma ciò a cui mi tengo attaccata con forza e con speranza è anche la consapevolezza che la rete delle persone vicine e compagne fa la differenza.
Pensando alle coppie che, come me, hanno affrontato il percorso adottivo ho trovato un po’ difficoltoso leggere la prefazione di Matteo Bussola in cui si parla di «libro necessario» e la postfazione dell’autore che racconta di aver cercato una terza via tra il filone scientifico e quello motivazionale «facendo una sintesi di tante storie per l’adozione», le ho trovate parole inesatte e, forse, superflue.
Sorvolando sull’etichetta “necessario” che è talmente abusata da perdere significato, io credo che la strada più onesta di raccontare una storia, “la terza via”, non sia una sintesi di storie, ma il racconto di una storia particolare che non abbia pretese universali.
Tralasciando, tuttavia, questi apparati, ho cercato di dedicarmi a Un nido di nebbia senza pregiudizi e ho trovato, in effetti, una bella storia, raccontata onestamente con empatia ed equilibrio. Il graphic noovel intreccia in modo armonico movimenti tra il passato e il presente, raccontando la storia di Davide, Valeria e Gabriel, attraverso tre momenti: L’attesa, Il travaglio, Vita.
La storia di una coppia e poi di una famiglia, raccontata attraverso i dialoghi (in nero), ma anche attraverso un triplice flusso di pensieri: rosso per i pensieri di Davide, azzurro per quelli di Valeria, verde per quelli di Gabriel.
Si racconta tutto e si parte dalla rabbia e dal senso di ingiustizia che si prova “prima”, tra tentativi, morte e attese:
«E così scopriamo di dover restare soli. Senza lasciare traccia del nostro passaggio su questo mondo. Quando ce lo dicono, vado in frantumi. Anche Riina ha avuto figli, Anche Mengele, cazzo. Perché noi no? Non è giusto» [Davide]
Il lungo stillicidio, a tratti umiliante, tra servizi sociali, giudici… ma anche inaspettatamente il confronto con i datori di lavoro, con gli amici… con chi non conosce il mondo adottivo. Tutto è raccontato schiettamente, tra incomprensioni e prese di coscienza. Ci si immerge con Valeria e Davide dentro tutti i pregiudizi, i discorsi fatti, gli stereotipi che ruotano intorno all’adozione, di cui si parla spesso senza conoscere niente.
E poi il travaglio, il vero travaglio: il viaggio, l’incontro, il misurarsi con un figlio e sentire tutto il peso dell’inadeguatezza, delle paure che ti assalgono quando ti senti “arrivato”.
Tutto è lucidamente raccontato nei ricordi e nel racconto di questa famiglia. Con l’incontro con Gabriel - che porta sulle sue spalle di bambino, un passato che lo turba e lo perseguita in modo molto doloroso - la storia continua in modo molto lucido a mostrare il lavoro di scoprirsi famiglia. È bello veder intrecciarsi in queste pagine, tra una corsa trafelata e un brutto sogno, una telefonata e un pianto dirotto le paure di tutti e tre (rosse, blu e verdi).
È molto confortante vedere come sia molto difficile prendere immediatamente le misure nella relazione con se stessi in un nuovo ruolo (genitori, figlio) e con gli altri. Questa storia non fa sconti e ce lo racconta.
Con il ritorno a casa si chiude il capitolo de Il travaglio, e la terza parte fa un balzo in avanti, di quasi una decina d’anni: Vita.
Il contesto ci precipita, senza preavviso, in questura dove riconosciamo Gabriel, nel giovane ragazzo imbronciato, trattenuto dai carabinieri e in attesa dei suoi genitori.
Anche in questa parte non mancano le analessi dove i genitori raccontano della difficoltà di calare un’idea educativa - all’inizio certo teorica - nel rapporto col proprio figlio. Gabriel, d’altra parte, ormai grande ci racconta una storia, lontana da casa, fatta di incomprensioni con i coetanei, forse di razzismo, di insoddisfazione…
Le scenate, i gesti di rabbia, le sfide arrivano fino alla violenza, ai pugni, alle spinte, alle sberle che però richiamano in modo drammatico, un passato che è più doloroso per alcuni. Gabriel scappa, se ne va.
«Scappa, stronzetto. Scappa. Tanto prima o poi dovrai tornare. […] Non avrei dovuto colpirlo. Anche se avevo le mie ragioni. In questi mesi ci sta facendo ammattire» [Davide]
«Ma come ho fatto a dubitare del mio istinto materno? Mi manca l’aria. Le ore che passano senza Gaby. La paura che faccia una fesseria. L’ansia di saperlo solo, chissà dove» [Valeria]
«Sono stufo di farmi prendere a schiaffi. Ecco cosa dico ai poliziotti. Gli dico anche che a casa litighiamo tutti i giorni» [Gabriel]
È commovente vedere come i pensieri di Gaby passino dalla risolutezza adolescenziale a una profondissima vulnerabilità che ritorna alle origini:
«e se poi non mi vogliono poi più? E se invece sono io a non volerli più?»
Gaby viene preso in custodia: «il decreto del tribunale dei minori ci definisce genitori inadeguati. Il giudice dispone il ricollocamento di Gaby in una comunità protetta» [Valeria]
Da questo momento sono i ricordi, che si accavallano nella mente di tutti e tre, a cercare di ricostruire una storia e le scelte che hanno intrecciato la storia di questa famiglia.
«651 giorni dopo, il giudice dice che può bastare. E ci lascia tornare a casa»
«se vuoi un figlio… Soprattutto un figlio adottivo… Devi liberarti di tutto il bagaglio inutile e imparare a procurarti quello che serve lungo la strada»
Il finale di questa storia è speranzosamente positivo e ho apprezzato il desiderio di mostrare i drammi, i dolori, le paure e le sofferenze che nella storia di tutti ma forse un po’ di più nella storia delle famiglie adottive si intrecciano.
Il lavoro dell’illustratrice, Ariel Vittori, è ben pensato fino al particolare e riesce ad armonizzare passato, presente, pensieri e paure, creando contemporaneamente una grande unità ma una chiara rotta di lettura.
Mi rimane però un interrogativo: se questa storia fosse particolare, non poteva che essere così, ma se il desiderio era di essere sintetica di tante storie che cosa permette la riconciliazione finale?
Il cambiamento in quei giorni drammatici (che tante famiglie che conosco vivono nella vita vera), non viene raccontato, ma accade come d’incanto. I tre protagonisti di questa storia sono molto soli, fanno un viaggio di consapevolezza personale dentro di sé, dentro la loro storia, dentro al loro rapporto, ma sono molto soli.
Ciò che io credo faccia la differenza e che, sì, vada più narrato e più raccontato è che la compagnia, il sostegno, la mano di tanti altri che ci passano o che ci sono passati sono LA risorsa, l’unica strada per non soccombere.
Un libro per adulti, un libro per genitori che stanno pensando all’adozione o la vivono.