L’ultimo unicorno è un’opera del 1968 di Peter S. Beagle, ritenuta da moltissimi critici e studiosi una delle opere fantasy più belle e fondamentali nella storia del genere (All-Time Best Fantasy Novels). Questo romanzo è considerato, dunque, un vero e proprio capolavoro, che spicca nell’ampia produzione romanzesca dell’autore statunitense.
In effetti, l’equilibrio di questa storia è perfetto, la tensione narrativa solida, il fascino dei personaggi e l’intreccio fiabesco, che conducono il lettore in un altro tempo, in un altro spazio, hanno un’armonia indimenticabile.
Anche Patrick Rothfuss, chiamato a firmare l’introduzione, riesce principalmente ad affermare con decisione che questo è un libro imprescindibile, da leggere. E non posso che essere d’accordo, perché è difficile riuscire a distillare ciò che effettivamente ha funzionato in modo così perfetto in queste 272 pagine da rendere questo romanzo così avvincente.
La storia si apre su un unicorno femmina, presentato nella peculiarità del suo essere immortale. L’eternità di questa creatura, infatti, caratterizza da subito il senso della storia, perché il suo sguardo è diverso da quello dei comuni mortali: le passioni travolgenti non le appartengono, perché l’eternità è una prospettiva fuori dallo spazio e dal tempo.
L’unicorno è un essere imperscrutabile e ugualmente imperturbabile, l’essere più puro e meraviglioso che il mondo abbia mai conosciuto. Ed è questa alterità che viene ribadita e affermata come intima essenza di questo personaggio:
«Gli unicorni sono immortali. È nella loro natura vivere da soli in un luogo ben preciso: solitamente una foresta in cui ci sia uno stagno abbastanza limpido per potersi specchiare, perché sono un po’ vanitosi, sapendo di essere le creature più belle del mondo, e oltretutto magiche.»
Eppure, la storia prende avvio per una presa di coscienza che turba la quiete inalterabile dell’unicorno: durante una battuta di caccia, un cavaliere intravede l’unicorno e, con un misto di nostalgia, stupore e amarezza, dichiara che probabilmente deve essere l’ultimo.
“Essere l’ultimo”: questo dubbio inizia a rimbombare nella consapevolezza della protagonista, che decide di abbandonare la sua foresta per andare alla ricerca di tutti gli altri suoi simili.
L’incipit colloca, dunque, immediatamente la storia in bilico tra il reale e il magico, tra ciò che è conosciuto e ciò che è perduto.
L’ambientazione medievale declinerà in numerosi affascinanti motivi il tema della magia reale e posticcia, della leggenda e della realtà: se gli unicorni non ci sono più, esiste ancora la magia nel mondo?
«“Perché pensi che se ne siano andati? Se mai sono esistiti simili esseri”. “E chi lo sa? I tempi cambiano. Pensi che quest’epoca andrebbe bene per gli unicorni?” “No, ma mi chiedo se qualcuno prima di noi abbia mai pensato che la sua epoca fosse adatta per gli unicorni. E, ora che ci penso, credo di aver sentito delle storie in merito... ma ero assonnato perché avevo bevuto, o stavo pensando a qualcos’altro”.»
Il mondo moderno e disilluso, infatti, mostra da subito l’incapacità di vedere e riconoscere l’unicorno come tale (lo scambiano per un cavallo…). La magia del mondo, dunque, non appare come qualcosa di distante, perduto, finito, ma come una realtà tangibile che fa parte del mondo, ma che non viene più riconosciuta come tale.
«“Come può essere?” si chiedeva. “Se gli uomini avessero semplicemente dimenticato gli unicorni, o se fossero cambiati così tanto da odiare adesso tutti gli unicorni e provare a ucciderli quando li vedono, avrei pure potuto capirlo. Ma che non li vedano proprio, o li guardino e li scambino per qualcos’altro... Come si vedono l’un l’altro, allora? Come appaiono loro gli alberi o le case, o i veri cavalli, o i loro stessi figli?”. Ogni tanto rifletteva che, se gli uomini non sapevano più cosa stavano guardando…»
L’unicorno incomincia il suo viaggio, e le parole profetiche di una farfalla indirizzeranno i suoi passi verso un Toro Rosso che pare aver condotto via tutti gli unicorni della Terra. L’avventura non sarà priva di rischi, perché il fraintendimento intorno alla sua figura la porterà prima ad essere catturata ed esposta in un circo di fenomeni da baraccone (il Circo della Mezzanotte), dove condividerà lo spettacolo con cani, scimmie, leoni… venduti per manticore, draghi… ma anche la vera arpia Celaeno, un’altra creatura vera e magica, tragicamente fraintesa!
Magia e illusione si intrecciano e si personificano nel Mago Schmendrick, nella cui figura si fondono in modo bizzarro e imbarazzante illusione e mistificazione, ma anche la possibilità di incanalare la magia vera: sarà lui a liberare l’unicorno e a mettersi in cammino con lei alla ricerca del Toro Rosso.
Ciò che aspetta la compagnia che va creandosi tra queste pagine è prima un covo di ladri e poi un regno maledetto, dove il re ha legato con un giuramento magico il suo destino a quello di una creatura magica potentissima, il Toro Rosso. Il patto prevede la soddisfazione di ogni desiderio del re Haggard, che però non è mai felice, perché nulla effettivamente soddisfa il suo cuore, neanche il possesso di (quasi) tutti gli unicorni del mondo.
Questa unione di mortalità e immortalità tra re Haggard e il Toro Rosso declinerà ulteriormente il macrotema della contrapposizione tra reale e magia, perché la visione della realtà da parte di un immortale è qualcosa di completamente diverso e, a tratti, incomprensibile nella concezione mortale.
La questione sembra infine ricondurre la capacità di vedere alla memoria, e questa sembra essere una prerogativa degli immortali, che hanno la possibilità di custodire conoscenze che la breve memoria umana non riesce a trattenere.
«“Loro vedono quello che voi avete dimenticato come si dovrebbe vedere” Schmendrick […] disse al sindaco che sorrideva: “È una creatura più rara di quello che osereste sognare. È un mito, un ricordo, il desiderio dei desideri. Il fuoco fatuo. Se voi ricordaste, se voi desideraste…”»
Il ricordo è contrapposto alla dimenticanza. Infatti, il castello di Haggard è il luogo della disillusione, dei desideri che non vengono mai appagati. Ma accanto al re c’è anche il principe Lir, coraggioso, integerrimo e puro, che sbaraglierà con il SUO desiderio ogni previsione e maledizione.
Il primo confronto della compagnia dell’unicorno con il regno di Haggard e il Toro Rosso determinerà un passaggio fondamentale, ovvero la trasformazione dell’unicorno in un essere umano, Lady Amalthea: è la magia vera a scorrere nelle vene di Schmendrick a determinare questa metamorfosi inaspettata.
Quello che era incominciato come un viaggio di ricerca si trasforma in una corsa contro il tempo e in una corsa contro l’oblio, perché l’unicorno non venga completamente contaminato dall’umanità e non dimentichi la sua stirpe che è venuta a liberare. Una corsa contro l’oblio che diventerà una corsa per non dimenticare se stessa.
Ma in questa corsa a perdifiato accade l’impensabile: accade l’amore di Lir per Amalthea e di Amalthea per Lir, e la lotta contro il tempo si conforma come un dolorosissimo scontro tra la scelta dell’oblio – che lasci spazio all’amore, all’umano – e il desiderio di non dimenticare, di tornare imperturbabili e quindi di lottare per ritrovare i propri simili.
La bellezza di questa storia d’amore è struggente e commovente, e senza mezzi termini definisce l’amore come una scelta di alterità, come le fiabe hanno sempre raccontato:
«“Sono nato mortale e sono stato immortale per un lungo, assurdo periodo, e un giorno sarò di nuovo mortale, per questo so qualcosa che un unicorno non può sapere. Tutto ciò che può morire è bello... Più bello di un unicorno, che vive per sempre ed è la più bella creatura del mondo. Mi capisci?” “No” disse lei. Il mago sorrise stancamente. “Capirai. Tu ora sei nella storia con tutti noi e devi procedere con essa, che tu voglia o no. Se vuoi trovare i tuoi simili, se vuoi tornare a essere un unicorno, allora devi seguire la favola fino al castello di re Haggard, e in qualsiasi altro posto lei scelga di portarti. La storia non può finire senza la principessa”.»
Lir e Amalthea scrivono tra le più belle pagine delle storie d’amore:
«“Io non sapevo cosa lei fosse” disse. “Ma capii dalla prima volta in cui la vidi che lei era qualcosa di più di quel che potevo vedere. Unicorno, sirena, lamia, strega, gorgone... Nessun nome tu le possa dare mi sorprenderebbe, o mi spaventerebbe. Io amo colei che amo” […] “lo amo colei che amo” ripeté con fermezza il principe Lir. “Tu non hai nessun potere su tutto ciò che ha davvero importanza”»
Lo scontro finale è struggente. La scelta che lega questi due amanti, come ricapitolazione di tutta la storia e come unione impossibile tra reale e magico, e tra dimenticato e riconosciuto, farà versare lacrime ai lettori, come ne ha fatte versare a me. Il sacrificio è l’unica strada: Lir darà la vita per la sua amata, e la sua amata darà la vita per il suo amato.
Eppure, ciò che rende questa storia d’amore struggente, commovente eppure con un finale costruito su una solidissima speranza, è la consapevolezza che il tempo è qualcosa di assolutamente relativo e che il ricordo – o meglio, la memoria – è la più grande conquista.
«L’unicorno chinò il capo e il suo corno scivolò sul mento di Lir con la stessa goffaggine di un primo bacio. […] L’unicorno lo toccò una seconda volta, sul cuore, posando lì il corno per un po’ di tempo. Stavano tremando tutti e due. Il principe Lir le porse le mani come se fossero parole. Lei disse: “Mi ricordo di te. Ricordo”».
La scrittura che intesse questa grande storia è misteriosa: inganno e magia si sovrappongono, incantesimi e parole magiche si confondono con ballate e leggende. Si legge Beagle come un liquore denso e aromatico, lo si ascolta rapiti, come si ascoltano le fiabe.
Da non perdere!