Stuart Little è il primo romanzo rivolto ai ragazzi scritto da Elwin Brooks White arguto scrittore e giornalista che fece la storia, collaborando con il The New Yorker, e che segnò anche la storia della letteratura per l’infanzia con il suo secondo romanzo La tela di Carlotta. Stuart Little è però la sua opera prima che esce nel 1945, in concomitanza con altre due opere miliari della letteratura per l’infanzia, Pippi Calzelunghe e i Mumin di Tove Jansson.
White, newyorchese, iscrive la sua opera in un solco fiabesco dal quale attinge a piene mani, ma che intende, in parte, rivoluzionare («proprio per queste storie [le ninne nanne fiabesche della tradizione ndr.] i bambini fanno brutti sogni la notte») come fece prima di lui Frank Lyman Baum con Il mago di Oz.
Siamo, infatti, di fronte a un bambino-topo, partorito dalla sua mamma, che tanto ricorda i Pollicini, i Cecini, i Gianporcospini della tradizione fiabesca.
Stuart nasce in una borghese famiglia newyorkese, che non fa un plissé di fronte al suo aspetto, ed è subito chiaro che, forse predestinato dalla sua forma fiabesca, è destinato a grandi avventure. Il romanzo, infatti, si rivolge a un pubblico di bambini piccoli (6-8 anni), ma è propriamente un romanzo d’avventura.
Tutta la prima parte si svolge tra le mura di casa che, per un topino piccolo come Stuart, rappresentano praterie ricche di possibilità: Stuart andrà all’esplorazione dello scarico del lavandino, dovrà vedersela con una tenda avvolgibile, ogni mattina dovrà misurarsi, a martellate, con i rubinetti per potersi lavare e anche il frigorifero riserverà non poche sfide di sopravvivenza.
Come in ogni grande avventura, arriva poi il momento di varcare la soglia di casa e Stuart, nonostante le sue ridotte dimensioni, parte per un viaggio che si allontanerà sempre più progressivamente da casa. Il laghetto nel parco e le barchette degli appassionati si trasformeranno in qualcosa di molto simile a un’avventura per mare, degna di Stevenson e dei suoi naufragi, per non parlare degli scontri con i malefici amici del gatto di casa o delle inaspettate trappole rappresentate dal camion dei rifiuti. La svolta sarà la conoscenza di Margalo passerotto che salverà Stuart da morte certa e per la quale Stuart proverà un’immediata simpatia («gli pareva di non aver mai visto creatura più bella di quella fragile uccellina e già sentiva di amarla»).
Quando la piccola Margalo, richiamata dall’atavico richiamo dell’istinto, partirà, anche Stuart deciderà di abbandonare casa.
«l’uccellina volò verso il nord, sempre più rapida e dritta, perché una voce interna gli aveva detto che nord è il punto verso il quale un’uccellina deve volare, quando la primavera giunge sulla terra»
Perché il viaggio incominci, il protagonista deve però recuperare un mezzo all’altezza dell’impresa: è su un bolide fiammante, regalatogli dal dentista, che Stuart parte.
«“andrò per il mondo in cerca di fortuna e anche in cerca di un’uccellina sperduta. Da che parte mi devo incamminare?”»
A differenza di tanti viaggi di protagonisti adolescenti dove la meta rappresenta il vero catalizzatore di ogni azione, in questo romanzo il viaggio è la ricerca della strada. Stuart non sa, infatti, che direzione prendere, non sa dove andare, ma mentre cerca la (sua) strada si misura con innumerevoli microavventure: insegnerà in una scuola, ristrutturerà una barca, manderà lettere di corteggiamento, contratterà per la benzina, flirterà con una piccola Pollicina.
Le tappe sono più che semplici inciampi, sono momenti fondamentali del viaggio, che ha un valore in sé, al di là della meta da raggiungere. Il finale aperto, apertissimo, da molti considerato “incompiuto”, senza il raggiungimento di nessuna casa e di nessuna passerotta ha fatto storcere il naso a più di un critico letterario americano, ma rappresenta invece la vera originalità di questo romanzo che, nel rivolgersi ai bambini, è molto coraggioso. Il finale con uno Stuart che ingrana la quarta verso un nord dove tutto può ancora compiersi - ma senza nessuna Margalo visibile - si trasforma in un inno a seguire quella intuizione del “più in là”, con una fiducia che è molto americana.
«Quando si sta cercando qualcosa, non si va molto in fretta»
Il romanzo è improntato ad ideali statunitensi: il modello del protagonista, ad esempio, certamente ricalca la mentalità del self-made man, con Stuart che si ingegna per possedere gli strumenti giusti (una goletta velocissima e una fiammante automobile), e che sa che, con questi a disposizione può giocarsi qualsiasi partita e arrivare ovunque egli voglia.
Siamo di fronte ad un viaggio che non ha la profondità della ricerca della propria identità, anche perché Stuart è un personaggio che si rivolge ad un’età diversa con domande diverse, la storia offre però l’intuizione di qualcosa d’altro da sé che esiste e verso il quale bisogna correre in una ricerca appassionata.
La scrittura di White è molto semplice, arguta, tipica della scrittura giornalistica e godibilissima nella lettura condivisa. C’è una prevalenza dei dialoghi, vero motore dell’azione, che sovrastano le descrizioni che sono invece funzionali e succinte. Forse la traduzione datata di Dino Segre, mai rinfrescata, ce lo fa sentire più lontano di quanto in realtà non sia.
Un romanzo proiettato sul futuro, dove le automobili e le barche sono il simbolo di una nuova speranza (è appena finita la guerra!) di poter correre verso un mondo nuovo dove tutto sia possibile, magari anche volare come Margalo.