Orzowei è romanzo più importante e noto di Alberto Manzi che nel 1954 lo consacrò, oltre che educatore e conduttore, come fine scrittore di romanzi per ragazzi. Manzi non era alla sua prima prova letteraria, ma fu proprio con Orzowei che il successo lo raggiunse come autore: il romanzo fu tradotto in 32 lingue, la Rai ne ricavò una riduzione televisiva, poi una versione cinematografica, fotoromanzi, gadget…
Orzowei è un romanzo che potremmo definire al maschile - sono pochissime e marginali le figure femminili che appaiono-, al cui centro c’è Isa un ragazzo bianco, abbandonato ancora neonato alle porte di un villaggio africano.
Il suo soprannome, orzowei, sta a significare che egli è “uno sciacallo d’uomo, un niente. Era bianco” e soprattutto era un abbandonato, un lasciato, un senza tribù, un senza famiglia.
Ribaltando completamente gli stereotipi a cui siamo abituati, l’emarginato è dunque un ragazzo bianco, mal sopportato perfino dal suo padre adottivo, non amato, picchiato e perseguitato dal resto della tribù. Eppure questa figura che parrebbe la vittima con la quale spesso è difficile immedesimarsi mostra da subito un vigore appassionato. Isa non si definisce attraverso lo sguardo dei suoi coetanei che lo disprezzano e degli adulti che a malapena lo sopportano, ma lotta, indomito, per scoprire chi è.
L’occasione gli sarà data dalla possibilità di poter partecipare alla prova dei guerrieri, un vero e proprio rito di passaggio, perché i ragazzi che devono sopravvivere nella giungla, da soli, possono essere uccisi dagli stessi appartenenti alla propria tribù (!). Una prova, dunque, che ha molto del rito sacrificale.
«“Forza” diceva a se stesso. “Forza Isa! Se ti prendono, ti uccidono… Forza, non devi fermarti. Se ti fermi tutto è perduto!”»
Isa mostra la capacità e la volontà di sopravvivere in una giungla che conosce bene, ma che è comunque piena di pericoli. In questo suo viaggio gli si farà incontro Pao, il capo della tribù dei Busheman, il Piccolo Popolo, - che si prenderà cura di lui nel momento in cui ogni speranza sembrava perduta.
Pao accompagna Isa nel suo percorso di ricerca di identità, lo farà offrendogli esplicitamente i suoi pensieri, lo farà invitandolo ad essere libero, lo farà innanzitutto amandolo. Questo personaggio è costruito perfettamente e, sebbene sia il portatore esplicito di ideali ben delineati, questo sapere non lo sopravanza mai, ma rimane una di lui emanazione coerente. Pao espliciterà schiettamente il suo parere, ma nulla dei suoi pensieri potrà essere ridotto ad una predica.
Isa, sostenuto dal rapporto con Pao, si spingerà ad incontrare la popolazione bianca che si è stabilita nella zona. L’esperienza di rifiuto e di disamore che Isa aveva provato nella sua tribù adottiva viene replicata nell’incontro con la popolazione europea: neanche da loro viene accettato, è diverso, è un selvaggio, è strano… non è un vero bianco.
Le violenze e il rifiuto si rinnovano in un nuovo copione, ma ancora una volta Isa non molla.
«“Io non so cosa sono. Sono Swazi, sono Busheman, sono bianco. E forse non sono niente di tutti e tre o sono tutti e tre messi insieme. Ecco: sono come la grande pantera. Anche lei è una, ma il suo manto è di tre colori. Ecco mi chiamerò ‘pantera’, ‘agile pantera’ Ti piace?”»
Ad aprire un varco nella relazione con i bianchi è un’altra figura paterna che gli si fa accanto Fior di Granturco (Paul), un terzo padre che gli dimostra una fiducia e un amore gratuiti e disinterressati. A questo si affianca l’amicizia con un altro reietto, il giovane Filippo, zoppo da una gamba, che diventerà un amico vero.
La ricerca di Isa del suo posto nel mondo non si interrome, perché tra i bianchi colonialisti e le diverse tribù africane nascono dissapori e scontri. Isa si troverà esattamente in mezzo: bianco non amato dai bianchi, nero non riconosciuto dai neri, eppure forte e legato a figure appartenenti ad ogni schieramento.
Proprio lui, abituato e trattato con violenza, che pur mai cede a usarla se non per sopravvivere, in questa stretta di conflitti in cui si verrà a trovarsi arriverà a dare la vita.
«“Basta!” esclamò l’orzowei. “Basta! Perché continuare ancora?”. Il pianto gli mozzò le parole. […] “Capitevi!” gridò con un singulto “Capitevi!”»
«“Egli ha ragione” disse lentamente. “È stato chiamato orzowei: un trovato. Forse è un Swazi, o un bianco, o uno del piccolo popolo. E tutti e tre, o forse nessuno dei tre. Eppure io ho visto: Busheman, negri, bianchi sono stati capaci di amarlo e di sacrificarsi per lui quando lo hanno conosciuto. Ed egli ha amato tutti. Ecco: quando ci conosciamo, anche se la nostra pelle è di un altro colore, ci amiamo. Capitevi; ha detto. Già, comprendiamoci. Il Grande Padre ha parlato attraverso lui. Il ragazzo non ha saputo dir altro. Ma ha detto tutto. Solo se ci comprenderemo a vicenda, solo se guarderemo al cuore, e non al colore della pelle che quel cuore ricopre, solo allora potremo vivere insieme, felici. Se no... se no sarà la fine di tutti”»
Orzowei è dunque un romanzo dai grandi ideali che spesso sono esplicitati, eppure è un romanzo che non possiamo in nessun caso definire moralista.
Gli insegnamenti che nel corso del romanzo vengono offerti al protagonista sono spesso contenuti all’interno di dialoghi espliciti, ma che proprio perché nella forma del dialogo, rimangono provocazioni di fronte alle quali il lettore e il protagonista possono misurarsi senza necessariamente sentirsi ricattati dal senso di colpa. Pao, ad esempio, non si esimerà dal dare una prospettiva escatologica al suo agire, offrendo una prospettiva profondamente spirituale (animista) all’agire umano.
«“Non ci dovete nessuna riconoscenza. Abbiamo fatto ciò che tutti avrebbero fatto.” “Ma noi siamo un altro popolo!” “Un altro popolo, è vero; ma un giorno cacceremo tutti insieme nelle terre del Grande Padre; perciò siete nostri fratelli.” “Comunque, non avevate il dovere di proteggerci.” “Quando il Grande Padre ci chiederà: ‘Perché non hai aiutato tuo fratello?’ non potremo risponderGli: ‘Perché era bianco, o nero, o giallo.’ Perché il Grande Padre non guarda alla pelle, ma al cuore; e tutti i cuori sono uguali”»
Allo stesso modo in cui l’elemento spirituale è esplicitato senza remore, il racconto della violenza, che spesso Isa subisce, viene raccontato crudamente, offerto al lettore senza compiacimento, ma anche senza riserve.
Questa scelta testimonia la profondissima fiducia che Manzi aveva nei ragazzi e nei suoi lettori, una fiducia che si specchia in quella che i padri di Isa ripongono in lui.
Il racconto dell’orzowei, dell’emarginato, allo stesso modo, ribalta alcuni stereotipi a cui siamo abituati: la vittima non suscita nel lettore né nei personaggi la benché minima reazione di compatimento. Isa è un personaggio fiducioso è un personaggio ardimentoso in cui tutti i lettori desiderano immedesimarsi! Il motore che definisce questo personaggio così unico è certamente la ricerca della propria identità, che ricalca la parabola di un romanzo di formazione, ma che si sviluppa in modo inaspettato. Nell’attimo in cui Isa incontra una figura adulta che lo ama, ogni paura, ogni rabbia, ogni frustrazione, ogni desiderio di vendetta si placa per diventare ricerca di sé, realizzazione di sé.
I padri che si avvicendano nella storia sono inaspettati e mostrano un volto accudente che non è così scontato ritrovare in figure maschili adulte.
A livello testuale siamo di fronte un grandissimo romanzo: Manzi ha una capacità di scrittura robusta, organizzata in ogni dettaglio, consapevole della testualità e della creazione del pathos.
La sua sintassi è scorrevole, limpida, sciolta, tipica di una scrittura imperniata sull’azione: è un romanzo di pura avventura!
Le stesse descrizioni non sono offerte al lettore come momenti di ambientazione, ma sono funzionali all’avanzamento dell’azione, tant’è che sono spesso focalizzate sulle percezioni di Isa che legge la giungla, il mondo e lo spazio con la sensibilità di un cacciatore.
Non c’è parola fuori posto, non c’è non c’è sbavatura, è un romanzo scritto perfettamente che avvince il lettore e che, a mio avviso, non sente il peso del tempo.
Un vero classico senza dubbio che merita di essere riscoperto.